DE FERRO ITALICO
Vede la luce nel 2011 uno dei
migliori album pagan/black metal della scena italiana, firmato Draugr. La band, il cui nome è la
sintesi tra la parola “Draug” (“lupo”
in Sindarin, lingua immaginaria
dell’universo Tolkien) e “Draugr”,
creatura non-morta della mitologia norrena (letteralmente, in inglese antico,
la parola significa “fantasma”), è di origine abruzzese, e si forma dalle
ceneri di una black metal band sviluppatasi sulla scia lasciata della più
estrema scena nordica nata tra la fine degli anni 80’ e l’inizio dei 90’, e rappresentata,
fra le altre, da band quali Marduk,
Immortal o Dark Throne. La
line-up, inizialmente composta da Svanfir
come cantante, Tenebrion e Triumphator, rispettivamente come primo
e secondo chitarrista, Stolas al
basso e Nifelheim alla batteria, dopo
la realizzazione di un primo demo black/thrash metal, intitolato “Spirits of the North” e numerosi live,
cambia, registrando, da un lato, l’abbandono del chitarrista Tenebrion, e, dall’altro, l’arrivo,
prima come nuovo chitarrista, di Mors, e
dopo, come tastierista, di Arctos,
permettendo alla band, così, di potersi sperimentare anche in generi differenti
rispetto al black metal “duro e puro”. Il risultato sarà la nascita di uno
stile musicale che sviluppa una melodia black metal grazie ad arrangiamenti
folk/epic/power metal, e che verrà definito dalla stessa band come “Italic Hordish Metal”. L’ottima
riuscita di questo esperimento musicale sarà, nel 2011, l’album “De Ferro Italico”, interamente
auto-prodotto in numero di 500 copie (anche se attualmente in ristampa grazie
alla casa discografica “To React Records”),
comprensivo di dieci tracce per una durata totale di circa un’ora.
Il genere che in questo lavoro ci viene proposto si inserisce,
evidentemente, sulla strada aperta da folk metal band nordiche, soprattutto
finlandesi, quali Ensiferum o Finntroll, ma se ne distingue, come, del resto, è
logico che sia per band spagnole, francesi, o italiane, per re-interpretare
questo folk/epic metal in una chiave maggiormente vicina a tradizioni e miti
nostrani, utilizzando, di conseguenza, una diversa strumentazione tradizionale,
modificando quelle che sono le classiche tematiche legate alla mitologia
norrena, e plasmando, anche da un punto di vista prettamente stilistico, un
differente genere musicale, che potremmo etichettare (cosa che odio fare, ma è
per rendere meglio l’idea…) più come celtic/pagan metal che viking. Fatta
questa premessa, ed iniziando ad analizzare le caratteristiche dell’album, c’è subito
da mettere in risalto l’ottima qualità sonora dell’opera (cosa quanto meno
inusuale per un CD auto-prodotto), nella quale tutti gli strumenti sono perfettamente
udibili, merito soprattutto del lavoro dell’ingegnier Mika Jussila nel suo studio di Helsinki, dove oramai conta
all’attivo la masterizzazione di più di 2000 CD, e di Davide Rosati, degli ACME
Studios. Per quanto riguarda il tema, i Draugr
in questo concept-album, come
emerge dall’intro “Dove l’Italia Nacque”,
affrontano uno dei topic maggiormente cari a professori e libri di storia
italici, e non solo: quello della cristianizzazione di buona parte dell’Europa,
avvenuta quando, nel 392 d.C., Teodosio I, influenzato e coadiuvato da
S.Ambrogio, mise definitivamente al bando la religione pagana in tutto l’Impero
Romano, dando completa attuazione all’editto di Tessalonica di undici anni
prima, e sdoganando, sciaguratamente, come spesso avviene nello schieramento
dei vincitori di una guerra, anche tutta una frangia di estremisti, cristiani
nel caso, che si accanirono rabbiosamente sulle rovine materiali e spirituali
del mondo pagano. I Draugr, di conseguenza, dedicano quest’album a tutti coloro
i quali, nel corso dei secoli, si sono opposti, in nome di quella visione di
mondo, all’inesorabile dominio della chiesa cattolica.
Tornando ad analizzare
singolarmente le tracce di questo album, passato l’intro, la seconda traccia in
ordine numerico è “The Vitulean Empire”,
l’unica in inglese di tutto il CD, la quale fa subito trapelare, neanche troppo
velatamente, le radici black di questa band, ed, in particolare, riporta alla
mente sensazioni melodic black metal, grazie al cantato acre e sofferente di Svanfir, che ricorda quello di Hreidmarr, ex frontman degli Anorexia Nervosa;
cantato in scream che, però, durante
tutto l’album, si alternerà magistralmente con un cantato in growl, maggiormente rapportabile
all’ambito folk metal, ed entrambi saranno accompagnati ed esaltati da
background vocals, che il più delle volte saranno composte da cori, di
battaglia o da osteria, a seconda delle esigenze. Questa parte melodica ben si
fonde con dei riff di chitarra che, specialmente in questa seconda traccia,
saranno solidi e violenti, ai limiti di un power metal molto tirato, i quali,
per altro, spesso e volentieri daranno spazio, susseguendosi e succedendosi, a
passaggi folk molto coinvolgenti, mentre il drumming resterà, per l’intera
traccia, costante e massiccio, quasi marziale. Il continuo alternarsi di queste
due anime musicali sarà una costante dell’intera opera dei Draugr e, non a caso,
porta alla mente, per analogia, un’altra pagan metal band del Sud Europa, i
francesi Aes Dana, a conferma di una
comunque evidente differenziazione attitudinale rispetto al filone viking
nordico. Da segnalare l’assolo di chitarra di Trumphator al minuto 3:50.
La traccia seguente, “L’Augure e il Lupo”, è decisamente più
su connotati folk, i riff sono meno cupi e violenti, ed è il flauto a mettersi
in mostra (ed il contributo non è uno qualsiasi, ma quello di Maurizio dei Folkstone), mentre, da un punto di vista armonico, le chitarre
paiono quasi adagiarsi su tempi e toni dettati da questo strumento. Inoltrandoci
nel brano, e con l’avanzare dei secondi, ciò nondimeno, le chitarre riconquistano
la loro supremazia sonora, tramite riff colmi d’espressività power metal, e la
voce, al pari dell’arrangiamento che alterna passaggi d’inferno, più ferali, di
stampo black metal a passaggi d’osteria, più festaioli, di stampo folk metal, è
ora lancinante, ora solenne. In questa traccia, inoltre, torna l’Italiano, che
non sparirà più per tutto il resto dell’album.
Il quarto brano “Ver Sacrum” è, verosimilmente, la
traccia più vivace dell’album; l’inizio, non senza che un sorriso increspi il
volto dell’ascoltatore, ricorda i finlandesi Korpiklaani, i quali, come molti ricordano, hanno fatto esordire la
loro “Beer Beer” con un grugnito di
un maiale; in questa traccia i Draugr, al contrario, inseriscono come inizio il
grugnito di un cinghiale, ed il testo, non a caso, parla della “Primavera Sacra”,
periodo nel quale i pagani, dopo aver risparmiato dal sacrificio i propri
primogeniti, ed una volta aspettato che fossero divenuti adolescenti, li
facevano migrare allo scopo di creare una nuova comunità in territori ancora
inesplorati; i ragazzi, per realizzare l’impresa, seguivano “le orme della guida ancestrale” (come
cantato nella prima strofa da Svanfir),
ovvero le orme di un animale che di solito risultava essere un cinghiale, e
che, tramite le sue impronte nel bosco, batteva il percorso da seguire per i
giovani romani. Da un punto di vista strumentale, l’armonia mette in risalto il
flauto, mentre le chitarre alternano continuamente, con un’accuratezza degna
del chirurgo Celso, passaggi più
ferali ad altri più distesi. Da segnalare la presenza, tra gli strumenti
tradizionali, dell’organetto a rullo, il quale fa da sfondo sonoro ad un ricco
banchetto con susseguente brindisi nel bel mezzo della traccia (minuto 2:30),
mentre il finale è un inferno di blast
beat e scream, con cori in
sottofondo.
La successiva, “Suovetaurilia”, è, invece, e con buona probabilità, grazie ai suoi
dieci minuti di durata, il pezzo più potente dell’intero CD, e, non a caso, il
testo parla dell’ ars pagana in tutte
le sue possibili sfaccettature; dalla famiglia alla guerra, dalla magia al
culto, l’ascoltatore è proiettato all’istante in un accampamento romano dove i
pagani celebrano la propria abilità e la propria predisposizione alla guerra
contro i cristiani.
Dalle terre italiche, un grido
si alzerà
di un popolo libero che la croce abbatterà
ululano i lupi, ringhiano le belve,
indossano armi e scudi delle stirpi sabelle.
In questa traccia, come in quella
precedente, è il flauto a farla da padrone (è pazzesco, ci sarebbe da chiedersi
come fa a suonare così velocemente), mentre il cantato, questa volta
maggiormente in growl, che ricorda Helge Stang, ex frontman dei tedeschi Equilibrium, si alterna perfettamente
con lo scream. Nel mezzo della
traccia, intorno al quinto minuto, c’è addirittura spazio per un inserto folk
stravagante ed esilarante, in stile Trollfest,
realizzato da un organetto a rullo, un liuto, il solito flauto, e cori da beoni
in sottofondo. Dopo questo intermezzo, ci si ributta subito a capofitto nell’anima
di questo album, che vive di un drumming incessante, mentre respira energici ed
imponenti riff di chitarra, i quali ci conducono verso il finale della traccia,
che prende vita sotto un cielo stellato, con una chitarra suonata di fronte ad
un falò ardente.
Con “Legio Linteata”, il sesto brano, a parere di chi scrive, si tocca
l’apice di questa creazione artistica sulla linea di confine tra storia e musica;
il primo, breve intro di trenta secondi è uno sferzante e rigido vento
invernale sulle cime innevate degli Appennini, che subito, però, lascia il
posto al contributo di un altro componente casa-Folkstone, Lore, il
quale, con la sua cornamusa, inizia a dipingere un accompagnamento sonoro che
arricchisce notevolmente il sound dei Draugr, al quale, presto, si
aggiungeranno l’organetto abruzzese ed il basso di Stolas, mai in evidenza, fino ad ora, come in questa traccia; ed
insieme, questo impossibile e curioso trio, creerà una costruzione armonica
micidiale, che consentirà di mettere in risalto tutta la grande ispirazione
artistica dei “lupi” abruzzesi. La batteria di Nifelheim continua a trascinare, scandire, sviluppare il tempo
della canzone e colorare ogni singola nota di ogni altro strumento di un
proprio significato, le chitarre evidenziano, ancora una volta, la vastità dei
propri repertori, mentre, al minuto 3:45, una nota di merito va al tastierista Arctos, il quale, insieme ad una
fisarmonica, riesce a creare un passaggio molto eclettico e coinvolgente. Dal
quarto minuto in poi, si gira nuovamente su linguaggi più power metal, e le sei
corde tornano a coprire tutte le altre sensazioni acustiche, la parte melodica,
ora scream, ora growl, risulta allo stesso tempo acida ed imponente, mentre le
background vocals continuano ad acclamare solennemente la “Legio Linteata”, un’ unità militare d’elite sannita che, dopo un
giuramento agli dei, diveniva una casta di guerrieri votata al sacrificio
estremo pur di difendere il proprio popolo. Il brano si chiude con Svanfir che urla “Abruzzo Pagano!”.
La successiva strumentale “Ballata
d’Autunno” è il pezzo ideale per riprendere fiato, ma anche per apprezzare,
grazie alla melancolia del flauto, la profondità e la poeticità di tempi ormai
perduti.
L’ottava traccia, “Inverno”, è
quella che più evidenzia la natura black di questa band; la canzone parte con
trenta secondi di scream
ininterrotto, spariscono flauti, organetti e simili mentre sono i blast beat a recitare il ruolo da
protagonista sul palcoscenico, con chitarre e basso, gravemente distorti, che
lo reggono maestosamente; il brano è di una furia che colpisce, ma non stona,
rispetto al resto dell’album, e il cantato di Svanfir si dimostra più che mai all’altezza. Il testo, una lirica
di doloroso splendore, narra, come suggerisce il titolo, di quanto nient’altro
se non la rigidità climatica getti in uno stato di precarietà l’uomo, ma al
tempo stesso lo faccia rendere cosciente di quale è la sua posizione nei
confronti dell’universo e della Natura, e di quanto debba tutto, compresa la
sua esistenza, ad Essa. Nel mezzo della traccia, che rallenta molto
poeticamente, la melodia è portata avanti dal basso, la chitarra, sospese le
distorsioni, suona degli accordi estremamente incantevoli, mentre la batteria
si lascia andare a delle sole rullate. Il finale, per la spietatezza che lo
contraddistingue, si riallaccia all’inizio del brano, proprio come l’Inverno è
l’inizio e la fine di un anno solare, o il carnefice e il custode della vita.
Magnifica traccia.
Il
penultimo brano in scaletta è “Roma Ferro
Ignique”, che ben rappresenta, per ferocia e maestosità, la conquista di
Roma da parte dei pagani, che poi ne celebrano la grandezza. Cattura
sicuramente l’attenzione l’intermezzo a metà traccia in cui la cornamusa di
Lore si mette in evidenza facendo da sfondo sonoro ad un amplesso udibile
grazie ai gemiti femminili, con la batteria a puntellare e sostenere
l’immaginario collettivo.
Conquista di Roma che, per altro, a
causa del copione già scritto da altri qualche millennio fa, deve essere ceduta
nella track conclusiva del CD, “De Ferro
Italico”, brano che racconta la battaglia conclusiva tra cristianesimo e
paganesimo, e la definitiva resa di quest’ultimo; battaglia impersonificata, come
in ogni storia che si rispetti, dall’eroe Sannita da un lato, e, dall’altro,
dall’eroe romano convertito. La traccia, nei suoi dieci minuti abbondanti, è
una sintesi di quanto meglio i Draugr ci hanno fatto ascoltare in questa opera
d’arte; attacchi strumentali ferali e veloci, stacchi, intermezzi, e
ripartenze; assoli di chitarra, passaggi armonici di basso, inserti
folkloristici grazie a flauti od organetti, inferni di blast beat, sovrapposizioni continue tra cantati in growl e scream con le background vocals, e melodie che ondeggiano tra il
black ed il folk, tra il power ed il pagan metal. Il finale dell’album, con la
sconfitta del Sannita sul campo di battaglia, lo conosciamo grazie ai libri di
storia:
Respingo una realtà di schiavitù e
ipocrisia,
accetto il mio destino, qualunque
esso sia,
per l’ideale ultimo sono disposto a
lottare,
per un domani nuovo, come un
fulgido albeggiare
Tolte le cuffiette, dopo un viaggio storico-musicale di un’ora tanto
profondo e coinvolgente, non si può che restare rapiti ed ammaliati. Colpiscono
i testi, per la loro elevata cultura e per la loro incantevole musicalità;
colpisce l’utilizzo, oltre che dell’Italiano, del latino e dell’Osco (antica lingua
parlata nelle zone d’origine della band); colpisce la naturale predisposizione
all’ascolto che questo album fa nascere dal primo all’ultimo secondo,
nonostante la, comunque, considerevole durata. Confonde il motivo per cui
questa band sia ancora senza l’appoggio di una casa discografica.
Tombe senza nome, la loro pietra
racconta, urla senza voce,
il loro eco ora giunge a noi,
moderni guerrieri dagli antichi
ideali.
In conclusione, “De Ferro Italico”
è una delle migliori release del 2011, e, oltre a potersi tranquillamente
candidare come disco metal dell’anno, entra di diritto, anzi, per conquista,
nell’olimpo degli album pagan/viking/epic metal, assieme a titoli come “Sagas” degli Equilibrium o “Valdr Galga”
dei Thyrfing, tanto per citarne un
paio.
Tra le migliori, si segnalano: “Ver
Sacrum”, “Legio Lineata”, “Inverno”
e “De Ferro Italico”.
Orgoglio nostrano. Da non perdere.
01. Dove l'Italia nacque
02. The Vitulean Empire
03. L'Augure e il lupo
04. Souvetaurilla
05. Ver Sacrum
06. Legio Linteata
07. Ballata d'autunno
08. Inverno
09. Roma Ferro Ignique
10. De Ferro Italico
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